Bronte festeggia i 100 anni di nonno Sebastiano Barbagiovanni, reduce della seconda guerra mondiale, per tre anni fu prigioniero in Russia. Oggi il taglio della torta, con al fianco la moglie Rosalia, «la festa con familiari, parenti e amici – spiega il centenario – la faremo dopo, per adesso pensiamo alla salute, con i contagi da Covid non è il caso di rischiare, anche se abbiamo fatto la terza dose di vaccino». I suoi genitori, Rosario e Rosaria Agostino, ne dichiararono la nascita a Tortorici l’11 gennaio 1922, loro paese d’origine, ma lui precisa subito: «Io cent’anni li ho compiuti da giorni, mia madre diceva sempre che ero nato a dicembre». Poi continua: «Abitavamo a Bolo, nel Messinese, di fronte alla Serra di Bronte, accanto al Simeto. Sono quinto di cinque maschi, ma più grande di due sorelle, Rosaria (per tutti Sara) 97 anni li ha compiuti di recente, siamo rimasti noi due». Racconta ancora nonno Sebastiano: «Mio padre, per un’infezione al ginocchio causatagli da una spina, ci lasciò che avevo circa 5 anni. Da solo e a piedi, facevo chilometri per andare alla scuola elementare, per la prima e la seconda al Fondaco a Maniace, per la terza a Portella di Malamogliere, sulla strada verso Cesarò, al bivio per Bronte, dove aprirono una scuola per i 16 bambini della zona. Da Bolo, andammo a vivere in una masseria al Cattaino di Bronte, presa in gabella e poi comprata». Ma ecco la chiamata alle armi: «Ero residente a Tortorici e lì, compiuti 20 anni, mi cercarono per la notifica della cartolina. Mi rintracciò poi il maresciallo dei carabinieri di Bronte, dove vivevo, e il 15 marzo 1942 ero al 111° Reggimento Fanteria di Trento – dice l’ex combattente -. Da lì andai a Cuneo a fare le grandi manovre sul Monte Bianco, con destinazione fronte russo. A ottobre fui in prima linea, sul fiume Don, in forza all’80° Reggimento Fanteria Mobilitato – 12ª Compagnia, del Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir)».
E ora arriva la cronaca dalla trincea: «Gli aerei lanciavano biglietti, invitandoci alla resa. A terra i russi avanzavano a plotoni affiancati, ci avrebbero sterminati, arrivò l’ordine della ritirata, ma, sulla neve e sul ghiaccio, tentammo una linea di resistenza mentre congelavamo – narra come fosse ancora in combattimento, il superstite Barbagiovanni -. A gennaio del ’43 fui catturato dai russi, il mese dopo mi portarono in Siberia, dove all’ospedale di Sciumika ebbi amputato l’avampiede destro perché congelato». «Trascorsi lì 10 mesi di prigionia fra la fame e il freddo, mi ridussi in pelle e ossa, poi fui trasferito in Asia minore, ma almeno lì c’era caldo. Qui, i prigionieri lavoravano nei campi di cotone, ma i mutilati, secondo gli accordi dei russi con gli americani – ricorda il reduce -, non potevano fare lavori pesanti, così io stavo in lavanderia, lavavo i panni dei miei commilitoni. Ogni giorno, con le zuppe ci davano una piccola pagnotta, al posto della fetta di pane siberiana. Sempre fame era, ma non patimmo più il gelo». Su quel triste periodo, l’ex combattente conclude: «Fui rimpatriato il 16 ottobre del 1945, dopo un mese in treno arrivai in Italia, all’ospedale di Merano. Sentivo dire che dalla Russia eravamo tornati vivi circa il 10 per cento. Rientrai a Bronte a fine anno, per la vigilia di Natale». Luigi Putrino Fonte GDS CLICCA QUI PER LEGGERE TUTTO L’ARTICOLO