Maria Vagliasindi fumava nazionali senza filtro, portava il cravattino e gli occhiali da sole, andava da sola in calesse per le campagne, giocava a carte e soprattutto non voleva consigli «So sbagliare da me». Una donna di carattere la baronessa del Castello di Randazzo, nata nel 1881 e morta nel 1970 dopo una vita, a detta di tutti, più mondana che casalinga. Autorevole, indipendente, moderna, era pur sempre una che, nonostante tutti i vantaggi di una condizione sociale privilegiata, sapeva di dover “stare al posto suo” (per l’epoca) vale a dire la cucina. La sua storia a cavallo fra Otto e Novecento è raccontata adesso in un libro di 450 pagine scritto da Rosanna Romeo del Castello e Chiara Vigo, per le quali Maria era nonna e bisnonna. Una narrazione “necessaria” rivelatasi però sorprendente per madre e figlia, partita dalla semplice custodia dei libri di ricette della baronessa e arrivata a dipingere un affresco storico sulla nobile famiglia di Randazzo che viveva nella campagna di contrada Allegracore. Infatti, se le ricette di Maria Vagliasindi sono il corpus principale del libro, la parte più interessante sta proprio nell’ascolto delle vite degli altri, attraverso il ritratto della cuoca-baronessa. Le ricette sono state un pretesto, dite la verità… «In realtà – risponde Rosanna Romeo del Castello – eravamo partite dalla loro trascrizione, una cosa non semplicissima perché sono in una grafia desueta, su fogli e foglietti, alcuni già impaginati altri volanti. Durante un trasloco li avevo ritrovati, custoditi e anche utilizzati proprio per replicare le ricette. Ma io avevo ritrovato solo la parte relativa agli antipasti, ai dolci e ai piatti di mezzo. Studiando le ricette ci siamo rese conto in seguito che la cosa più interessante non erano i piatti in quanto tali ma il linguaggio, l’ambientazione, la storia che c’era dietro e ragionando su questo abbiamo capito che dovevamo innanzitutto parlare del “personaggio” Maria».
Ma mancava un pezzo… «Sì, infatti, mia mamma – spiega Chiara Vigo – aveva in custodia solo una parte di questi quaderni. Della parte più consistente relativa ai primi e ai secondi, che credevamo perduta, non ne conoscevamo proprio l’esistenza, ma quando abbiamo iniziato a parlarne fra parenti, una cucina di mia mamma ci ha rivelato di essere in possesso dell’altro “pezzo” del corpus delle ricette e le abbiamo rimesse tutte insieme. Poi, l’idea di pubblicarle ci è venuta più o meno nel 2004 durante il mio dottorato di ricerca in Scienza delle Arti a Venezia». E ci sono voluti 20 anni per trovare un editore? «Sì, perché nessuno all’inizio aveva capito il senso del nostro progetto che era quello di mantenere le ricette tali e quali, senza “modernizzarle” con il linguaggio attuale, e di utilizzarle come pretesto per raccontare un’altra storia, la storia della nostra famiglia, dell’Etna, la storia di un contesto sociale nei primissimi anni del Novecento. Inoltre, il mercato editoriale, vent’anni fa, era affollato di questo genere di pubblicazioni e quindi non ci considerò nessuno. Adesso, grazie all’intercessione del mio prof di semeiotica Gianfranco Marrone il progetto è andato a buon fine».
Che cos’è “L’anima del sauté”? «Il sautè è una casseruola bassa di rame adatta alla cottura dei cibi al salto, l’anima è un accessorio di questo tegame, ma per noi il titolo vuole fare riferimento all’anima di una cucina intimistica, autentica, corale, che rischiava di perdersi nel tempo. Ecco, abbiamo voluto riportarla in vita per tramandarla. Cucinare la memoria è il modo più giusto per preservarne il valore». Aspetti umani della nonna? «Mia nonna era una donna affascinata dalla modernità, le piaceva tutto ciò che era innovativo senza mai rifiutare l’assetto patriarcale che vigeva nella sua famiglia. Lei nella cucina si era ritagliata il suo ambito di dominio e di potere, era molto dinamica, molto più mondana delle sue coetanee di Randazzo e di sua sorella Clotilde che era rimasta vedova in giovane età ma si era ritirata in casa. Dal punto di vista personale, non era una nonna tenera, anzi all’apparenza era dispotica e austera. Non ricordo di essere mai stata in cucina con lei, vivevamo sullo stesso piano di casa ma avevamo due ménage diversi con due cucine diverse».
Invece per chi non l’ha conosciuta queste pagine che personaggio restituiscono? «La cosa più divertente nello scrivere il libro – risponde Chiara Vigo – è stata scoprire, ricetta dopo ricetta, una persona che è diventata sempre più vicina, quasi una confidente. L’ultima tranche di lavoro è stata fatta durante il lockdown, eravamo io e lei… Mia mamma ha raccontato i suoi ricordi, io ho vissuto la mia bisnonna come terza autrice, presente nella quotidianità della scrittura. Posso dire che grazie a lei si è modificato anche il mio presente. Tante ricette ponevano domande cui non sapevo rispondere dai nomi di alcuni ingredienti ai materiali utilizzati, dai metodi di cottura agli utensili di cucina come questa famosa “anima del sautè” che non si sapeva cosa fosse. Queste domande mi hanno “costretto” a indagare con dei parenti di Randazzo dei quali avevo anche perso le tracce e grazie a ciò si è creato una sorta di “risveglio familiare” che, per me, è stato il regalo più bello e commovente che la bisnonna Maria mi potesse fare. Per me è stata quasi una scrittura “terapeutica” una ricerca personale non solo delle mie origini ma anche una riscoperta dell’identità territoriale dell’Etna, un “come eravamo” all’inizio del secolo».
Voi tuttora avete l’azienda agricola… Se la bisnonna venisse oggi cosa troverebbe di diverso? «Niente. In contrada Allegracore a Randazzo, ci sono sempre i vigneti, l’oliveto, il pereto, la colata lavica… Siamo per la custodia del paesaggio e non per la sua distruzione. In questo senso il libro vuole essere anche una risposta militante all’attuale “cannibalizzazione” del contesto vitivinicolo etneo proponendo, con il pretesto delle antiche ricette, una rinnovata ricerca di identità familiare e territoriale». La ricetta preferita? «La brioche – risponde Rosanna Romeo del Castello («L’abilità nel cucinare con me ha saltato una generazione», ride la figlia Chiara). È una sorta di brioche salata a forma di ciambella. Mi piace tanto, è semplice e di grande effetto, si usa come primo piatto e lo faccio sempre durante le feste». Carmen Greco Fonte “La Sicilia” del 08-04-2024